Roma, 25 gennaio – I farmaci orfani destinati alla cura di malattie rare o rarissime, per definizione, sono tutt’altro che un affare, a causa dell’esiguità del numero dei malati colpiti dalle patologie che essi sono destinati a curare. Proprio la mancanza di un mercato numericamente apprezzabile, del resto, è sempre stata la ragione del disinteresse delle industrie del farmaco (che non sono notoriamente enti di beneficenza) a investire nella ricerca di questo tipo di medicine, con il risultato che – più che di farmaci senza malati – per lunghissimo tempo si è assistito alla presenza di molte malattie orfane di cure.
Finché le autorità sanitarie di tutto il mondo non hanno deciso (più o meno agli inizi degli ’80) di provare a risolvere la situazione, con politiche finalizzate a incentivare gli investimenti delle aziende farmaceutiche nel campo dei rimedi per le patologie rare, attraverso la concessione di consistenti vantaggi di ogni tipo: finanziari e fiscali, sconti sui costi di registrazione presso gli enti regolatori, ampie e lunghe garanzie di presenza esclusiva sul mercato, eccetera.
I risultati non sono mancati: le leggi pro-farmaci orfani hanno permesso in tempi relativamente brevi di disporre di medicinali per una seria di malattie fin come fibrosi cistica, malattia di Fabry, Gaucher e Pompe, deficit enzimatici rari, tumori come il mieloma multiplo e via enumerando. Un puntuale articolo di Letizia Gabaglio pubblicato da la Repubblica e ripreso sul supplemento dedicato alla salute del quotidiano romano, ricorda al riguardo qualche numero: dal 2000 a oggi sono state presentate 2713 domande, 1827 hanno passato il primo esame e le molecole sono state designate come orfane, ma solo 126 sono diventati farmaci disponibili in Europa.
Le agevolazioni alle industrie hanno generato un mercato che, alla fine, si è rilevato ricco: nel 2015 negli Usa sono stati spesi 107miliardi di dollari, che cresceranno di oltre il 10% per il 2020, il doppio degli altri farmaci.
Anche in Italia il mercato dei farmaci orfani In (che rappresenta poco più dell’1 per cento del mercato totale) risulta in crescita costante, anno dopo anno, con margini che – per le industrie – si sono fatti ormai interessanti. La ragione risiede, almeno in parte, nel prezzo riconosciuto a questi medicinali, che per essere destinati a un numero di gran lunga inferiore di persone è mediamente molto più alto (in qualche caso anche di 20 volte) rispetto ai farmaci non-orfani.
Gabaglio cita l’esempio di farmaci per i deficit enzimatici che in media costano oltre 260mila euro a paziente: anche se il numero dei malati è ridotto, l’alto costo interviene a compensare e a garantire ai produttori ritorni economici interessanti.
Tanto che, adesso, c’è chi comincia a chiedersi (e a farlo sono le stesse autorità sanitarie) se quello dei farmaci orfani, per le aziende del farmaco, non sia ormai diventato un vero affare, grazie soprattutto alle normative di sostegno. Normative che – lo ha voluto ricordare qualche mese fa l’American Journal of Clinical Oncology – erano nate per aiutare i pazienti, più che le aziende.
Si fa strada l’idea, insomma, di riconsiderare l’intera questione, rivalutando in primo luogo i larghi vantaggi fin qui concessi alle industrie farmaceutice, che – nelle pieghe della normativa pro-farmacie orfani – hanno individuato in questi anni possibilità insperate per vedere riconosciuti come “orfani” alcuni loro farmaci, mettendo a segno guadagni rilevanti.
A livello europeo, ad esempio, si stanno introducendo paletti più severi, per “costringere” le aziende a dimostrare con prove solide i benefici che le molecole orfane producono per i pazienti e la loro salute e per impedire che il ricorso ad alcuni escamotage – come ad esempio il cambio di forma farmaceutica, da iniettiva a orale – sia condizione sufficiente per accedere alla classificazione di “farmaco orfano” e godere dei relativi incentivi, benefici e vantaggi.
Una delle questioni sulla quale più si discute è quella delle indicazioni dei farmaci, che nascono “orfani” ma strada facendo allargano la platea dei destinatari. La domanda è semplice: se la somma di tutti i pazienti trattati, affetti da malattie diverse ma poco diffuse, supera la prevalenza della patologia rara, il medicinale ha ancora diritto a conservare status e vantaggi del farmaco orfano? Nella Commissione europea si sta facendo strada l’idea di sottoporre i farmaci orfani che allargano la platea dei destinatari a una verifica dell’esistenza delle condizioni per conservare il loro status. L’eventuale declassificazione, ovviamente, non avrebbe effetti retroattivi. In altre parole, le aziende non sarebbero obbligate a restituire gli incentivi ricevuti, così come un’azienda che avesse ottenuto le agevolazioni in fase di sviluppo di una molecola e poi non riuscisse a ottenere la commercializzazione nella categoria “orfani” e si indirizzasse poi verso la strada della commercializzazione ordinaria, prederebbe ovviamente ogni diritto alle agevolazioni future ma senza dover restituire quelle già ottenute. In ogni caso, la strada verso regole più stringenti nel riconoscimento dello status di farmaci orfani sembra segnata. E, con i chiari di luna di una crisi economica che sembra destinata a non finire mai, era pressoché inevitabile.