Roma, 29 aprile – L’opinione pubblica statunitense segue con estrema preoccupazione l’andamento del virus A/H5N1 ad alta patogenicità nel Paese: dopo aver contagiato alcuni allevamenti di bovini in diversi Stati dell’Unione e infettato anche una persona che aveva avuto contatti con i bovini (che però, secondo i Cdc statunitensi, è stata subito isolata e trattata con antivirali e ha riportato come unico sintomo una congiuntivite), il virus dell’influenza aviaria – o meglio, alcuni suoi frammenti – sono stati rilevati in campioni di latte pastorizzato. A comunicarlo è stata la Food and Drug Administration (Fda), che insieme agli appena citati Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) e al Dipartimento dell’Agricoltura sta indagando sull’epidemia di aviaria negli allevamenti.
Nel dare la notizia, subito ripresa dai media americani, le autorità sanitarie federale hanno precisato che non ci sono rischi per i consumatori e il rischio per la popolazione generale (a chiarirlo sono i Cdc) continua a rimanere basso.
L’allarme per la diffusione del virus dell’influenza aviaria nei bovini da latte era scattato lo scorso 25 marzo, quando il virus è stato riscontrato nel latte non pastorizzato proveniente da due allevamenti in Kansas e uno in Texas e da tamponi effettuati in un quarto allevamento in Texas. Il 29 sono state riscontrate nuove positività in un allevamento in Michigan.
Il test Pcr, l’analisi che ha permesso di individuare la presenza virale, cerca tracce di materiale genetico, quindi un risultato positivo non significa che il virus trovato sia vivo e infettivo. “Sulla base delle informazioni disponibili, è probabile che la pastorizzazione inattivi il patogeno, ma non è previsto che elimini la presenza di particelle virali” spiega la Fda. “Ad oggi – puntualizza l’agenzia regolatoria federale – non abbiamo osservato nulla che possa cambiare la nostra valutazione secondo cui la fornitura commerciale di latte è sicura”.
La scelta di non creare allarmismo è condivisa anche dal virologo italiano Fabrizio Pregliasco, docente dell’università Statale di Milano (nella foto), che ricorda il passaggio del patogeno ai mammiferi “è una cosa già assodata. Sappiamo già che diversi mammiferi possono infettarsi, ma non sono però ospiti preferenziali dei virus aviari e in molti casi non presentano sintomi. Ogni specie ha comunque dei recettori per questi virus, anche noi esseri umani”.
Riguardo alle preoccupazioni dei contagi verificatisi sugli uomini, Pregliasco precisa che “sono casi ad oggi isolati, limitati a persone che hanno avuto contatti stretti con animali infetti”. Secondo il virologo “va visto l’aspetto positivo: grazie all’attenzione delle reti di laboratorio, e a una maggiore sensibilità che per certi versi possiamo leggere come un’eredità positiva del Covid, riusciamo a individuare anche casi che, se non ci fosse stata questa attenzione, sarebbero stati archiviati come ‘banali infreddature’. Significa che il sistema di allerta funziona ed è molto molto sensibile. Gestiamo queste informazioni in termini positivi e propositivi”, è l’invito conclusivo del virologo.