Roma, 14 giugno – Il problema è ben noto da tempo: gli antibiotici – il cui uso inappropriato è ritenuta la causa prima dell’antimicrobico resistenza, divenuta pormai una minaccia sanitaria su scala globale – hanno tra i loro effetti non propriamente desiderati quello di alterare pesantemente il microbiota intestinale, ovvero la variegata comunità di miliardi di microorganismi che partecipano in miracoloso equilibrio ai processi digestivi del nostro organismo, sintetizzando vitamine essenziali, come quelle del gruppo B, metabolizzando le proteine, intervenendo nell’assorbimento del calcio, del magnesio e del ferro, regolando la motilità intestinale e che agiscono anche sul sistema immunitario, oltre a influenzare l’umore e la nostra salute mentale.
Accade appunto che le terapie antibiotiche mandino a carte quarantotto l’equilibrio del microbiota e, peggio, colpiscano i microrganismi benefici (come i probiotici) e gli innocui commensali e invece facciano al più il solletico ai microrganismi patogeni che – o perché provvisti di pareti cellulari con membrane difficili da attraversare, o perché capaci nel tempo di sviluppare meccanismi di disattivazione o ancora perché capaci di modificare le strutture di bersaglio dell’antibiotico – hanno sviluppato una resistenza a questi farmaci. Un esempio su tutti? I batteri Gram-negativi, spesso virulenti e capaci di sviluppare rapidamente resistenza agli antibiotici. Che così una volta assunti, se da una parte devastano il microbiota intestinale, dall’altra consentono a patogeni potenzialmente mortali (come il Clostridioides difficile, più conosciuto forse con la sua vecchia identità di Clostridium difficile) di prendere il sopravvento.
Risolvere la questione di assumere antibiotici senza procurare troppi danni al microbiota intestinale e corre il rischio di aumentare la resistenza batterica è tutt’altro che semplice, anzi, è un frustrante rompicapo che poneproblemi e interrogativi anche ai medici nella pratica clinica quotidiana. Uno studio pubblicato sulla rivista Nature alla fine dello scorso mese di maggio, però, apre un piccolo spiraglio sull’esistenza di possibili soluzioni: un team di ricercatori coordinati da Paul J. Hergenrother del Dipartimento di Chimica dell’università dell’Illinois (nella foto) ha infatti sviluppato un antibiotico in grado di uccidere i batteri Gram-negativi patogeni, senza compromettere il microbiota intestinale.
Per trovare un modo di aggirare le difese dei microrganismi nocivi, gli autori dello studio hanno iniziato con l’analisi di composti noti per inibire il “sistema Lol”, un gruppo di proteine che compongono i batteri Gram-negativi. Una successiva ricerca ha individuato una molecola che i ricercatori hanno chiamato lolamicina e che – afferma Hergenrother – “uccide selettivamente i batteri patogeni rispetto quelli non patogeni in base alle differenze nelle proteine Lol”.
Nei controlli di laboratorio i topi ai quali è stata somministrata la lolamicina sono sopravvissuti al contagio di più di 130 ceppi batterici multi-resistenti agli antibiotici. Il passaggio successivo della sperimentazione sarà quello umano. E, ovviamente, niente ancora è dato sapere su quali possano essere i suoi esiti, anche se gli autori dello studio sono molto fiduciosi al riguardo. Ma questo accade spesso. In ogni caso, la speranza non costa niente.