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mercoledì 12 Febbraio 2025
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Rischio nucleare, scatta la corsa alle pastiglie di iodio. Ma servono? La risposta degli esperti

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Roma, 21 giugno – Il rischio che i conflitti in corso possano sfociare in attacchi o incidenti nucleari ha tra le sue conseguenze immediate quella di spingere la gente all’accaparramento “preventivo” di pasticche di iodio. Era già successo in Francia, sta di nuovo avvenendo in Danimarca, dove a far scattare l’interruttore della corsa allo iodio (o meglio, allo ioduro di potassio, KI) e il conseguente boom di acquisti sono stati i consigli diffusi dall’Agenzia nazionale danese per la gestione delle emergenze su come comportarsi e proteggersi in caso di emergenza nucleare: un’iniziativa che in Danimarca – dove la trasparenza delle istituzioni è un dogma – è stata interpretata come un segnale che il rischio nucleare è improvvisamente diventato più alto.

La ormai diffusa conoscenza del fatto che l’assunzione di una pasticca di ioduro di potassio riduce gli effetti negativi sulla tiroide, uno degli organi più a rischio di sviluppare tumori e malformazioni dopo l’esposizione ad alti livelli di radiazioni, ha indotto molti cittadini a procurarsi le pastiglie, nonostante il responsabile dell’unità per la radioprotezione presso l’Autorità sanitaria danese, Kresten Breddam (nella foto), intervenendo alla radio-televisione pubblica, abbia subito avuto cura di informare l’opinione pubblica che l’effetto delle pastiglie di ioduro di potassio sulla salute umana è meno marcato nei soggetti con più di 40 anni di età, e di ricordare al contempo che ”il consiglio più importante, in caso di incidente, è quello di rimanere in casa”.

Anche l’Organizzazione mondiale della sanità sconsiglia l’assunzione di compresse di iodio alle persone over 40, perché “non è stata trovata alcuna connessione tra l’esposizione allo iodio radioattivo e il cancro alla tiroide in questa fascia di età”. Per chi è più giovane, invece, il consiglio è addirittura di portarsele sempre dietro, così da poterne prendere una appena le autorità diffondono l’allarme.

In un focus pubblicato sul suo portale nel luglio dello scorso anno, la stessa Oms fornisce qualche utile chiarimento sullo ioduro di potassio e il suo funzionamento. “Durante un incidente nucleare può essere rilasciato nell’ambiente iodio radioattivo sotto forma di pennacchi o nubi e successivamente contaminare suolo, superfici, cibo e acqua” spiega l’agenzia sanitaria dell’Onu. “Potrebbe depositarsi sulla pelle e sugli indumenti, provocando un’esposizione esterna alle radiazioni. Se viene inalato o ingerito, provoca un’esposizione interna alle radiazioni”. Quando lo iodio radioattivo entra nell’organismo, “si accumula nella ghiandola tiroidea nello stesso modo in cui farebbe lo iodio stabile non radioattivo”, perché questa ghiandola che usa lo iodio per produrre ormoni non distingue tra iodio radioattivo e iodio stabile. Assorbire odio radioattivo “può aumentare il rischio di cancro alla tiroide in particolare nei bambini”, si legge ancora nel focus dell’Oms.

Le pillole di ioduro di potassio entrano in gioco proprio qui: “La ghiandola tiroidea può essere protetta dallo iodio radioattivo saturandola con iodio stabile (non radioattivo). Questa misura protettiva nota come ‘blocco tiroideo con iodio stabile’ consiste nella somministrazione di compresse di ioduro di potassio (KI) prima o all’inizio dell’esposizione allo iodio radioattivo” spiega il focus dell’Oms. “Se assunto al dosaggio appropriato ed entro il corretto intervallo di tempo rispetto all’esposizione, il KI satura la ghiandola tiroidea con iodio stabile e di conseguenza lo iodio radioattivo non verrà assorbito e immagazzinato”.

Nel suo focus, l’Oms ha però cura di precisare con chiarezza che il KI non è un antidoto per l’esposizione alle radiazioni: protegge solo la ghiandola tiroidea e solo se esiste il rischio di esposizione interna allo iodio radioattivo (ad esempio, un incidente in una centrale nucleare). Ma “non protegge da altre sostanze radioattive che potrebbero essere rilasciate nell’ambiente a seguito di incidente nucleare; non protegge dalle radiazioni esterne e non impedisce allo iodio radioattivo di entrare nell’organismo, ma ne impedisce solo l’accumulo nella tiroide”.

Il KI, puntualizza ancora l’Oms, “non dovrebbe essere preso come misura protettiva generica in previsione di un evento. Le compresse devono essere assunte solo quando esplicitamente indicato dalle autorità sanitarie pubbliche. L’efficacia per il blocco della tiroide dipende dalla tempestiva somministrazione. Il periodo ottimale di somministrazione di iodio stabile è inferiore a 24 ore prima e fino a 2 ore dopo l’inizio previsto dell’esposizione. Sarebbe comunque ragionevole assumere il KI fino a 8 ore dopo l’esposizione. Tuttavia, assumerlo dopo 24 ore dall’esposizione non offrirà alcuna protezione”. La dose corretta varia in base all’età e una singola dose solitamente offre protezione adeguata per 24 ore.

L’utilizzo delle pillole di ioduro di potassio, insomma, deve essere guidato e mirato, non è la panacea di tutti i mali e tutti gli esperti sconsigliano con estrema decisioni il fai-da-te. Come ha avuto modo di evidenziare il farmacologo Silvio Garattini (nella foto),le pillole allo iodio, come ormai diciamo da tempo, non servono a nulla contro le radiazioni nucleari” legate al rischio dell’utilizzo della bomba atomica. “L’accaparramento non ha senso”. L’unica soluzione è evitare pericolose escalation dei conflitti in corso ed “evitare una catastrofe nucleare””.

Sull’argomento era intervenuto qualche tempo prima (marzo 2022)  anche l’endocrinologo Alfredo Pontecorvi, rispondendo sul portale del Policlinico Gemelli di Roma alle domande della giornalista medico-scientifica Maria Rita Montebelli: “In caso di incidente nucleare, qualora fossero liberate nell’aria grandi quantità di iodio radioattivo, e, ci tengo a precisarlo, esclusivamente in questa evenienza, sarebbe opportuno distribuire alla popolazione lo ioduro di potassio. Questo, tuttavia, andrebbe somministrato al corretto dosaggio. Come fu intelligentemente fatto in Polonia, dopo l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl del 1986, o dai giapponesi, dopo il terremoto di Fukushima del 2011”.

L’esperto, però, invitava a tenere presente che “l’eventuale supplementazione di iodio andrebbe a proteggere solo dall’assorbimento degli isotopi radioattivi dello iodio – che hanno comunque una breve emivita, da 1 a 4 settimane – ma non proteggerebbe certo dagli altri isotopi radioattivi emessi”, quali ad esempio il Cesio-137 “che viene incorporato in tutti i tessuti con un’emivita di circa 30 anni”, o il Plutonio-239, “che ha una spaventosa emivita di oltre 24.000 anni”.

 

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