Roma, 4 ottobre – “È la stampa, bellezza, la stampa, e tu non ci puoi far niente, niente”. La celeberrima, imperitura ultima battuta del film L’ultima minaccia (1952), interpretato da un gigantesco Humphrey Bogart e ispirato a un fatto vero (la chiusura del New York World dopo la morte di Joseph Pulitzer), scolpisce una verità assoluta: l’informazione ha ragioni che la ragione non conosce.
Per fare il più semplice degli esempi, alzi la mano chi non si è stupito, almeno una volta nella vita, nell’assistere al disinvolto (e cinico) esercizio di prestidigitazione con il quale vengono improvvisamente e incomprensibilmente fatte scomparire dalla prima pagina anche le notizie più straordinarie e importanti (talvolta anche quelle riferite a una guerra), proposte ossessivamente con titoli di scatola per giorni e giorni e poi spostate senza ragioni apparenti nelle pagine interne, non di rado in posizioni defilate.
Perché? Chiederselo non è certamente inutile, ma paradossalmente non serve: è così, punto. È la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente.
Per quanto riguarda la stampa destinata alla professione farmaceutica – che risponde ovviamente alle stesse regole che governano il mestiere – tra i tormentoni dell’ultimo biennio (più o meno) va sicuramente inscritta la carenza di farmacisti, con i suoi corollari: la ricerca disperata da parte delle farmacie di farmacisti collaboratori per mandare avanti il servizio e lo spauracchio della fuga dalla professione farmaceutica di migliaia di farmacisti, con il sotto-corollario della sempre minore capacità di attrazione esercitata dalla carriera di farmacista e dell’emorragia di iscritti nelle facoltà di Farmacia del Paese.
Il tema, senza che nessuno ci prestasse attenzione, è bruscamente desaparecido, scomparso dai titoli di apertura di homepage e newsletter di settore e, fateci caso, da mesi quasi non se ne è parlato né se ne parla più. Forse il problema è stato risolto? No, per quanto è dato sapere: le relazioni quotidiane con farmacisti e farmacie ci confermano che si fa sempre molta fatica a trovare un farmacista da assumere a tempo indeterminato e gli “agenti all’Avana” che ci aggiornano su quanto accade nel mondo universitario ci informano, con un filo di comprensibile costernazione, che l’andamento delle iscrizioni alla facoltà di Farmacia oscilla sempre verso il basso. E allora perché l’improvviso silenzio? Semplice, siamo sempre là: è la stampa, bellezza, e tu non ci puoi far niente.
O forse sì, almeno se per mestiere uno fa il giornalista. Può, ad esempio, prendere al volo ogni occasione che consenta di riproporre i temi incomprensibilmente finiti nel dimenticatoio, come quello dell’impoverimento dei ranghi professionali (che oltre tutto è ontologico e strutturale), riportandoli all’attenzione della comunità professionale. E un’occasione preziosa è arrivata dal quotidiano la Repubblica, che ha recentemente proposto una guida a corsi di laurea e atenei in base a occupazione e salari medi, utilizzando largamente i dati sull’andamento delle iscrizioni alle facoltà universitarie e sui tassi di occupazione dei neo-laureati del Consorzio Almalaurea.
Dai quali salta fuori che, per il corso di laurea in Farmacia, la tendenza negativa continua: i laureati nel 2023 (ma sarebbe più corretto dire le laureate, visto che sono tre su quattro) sono 4.030, in calo deciso rispetto ai circa 4.200 del 2022. Una conferma che l’appeal della carriera “farmacistica” sta decisamente perdendo smalto e sarebbe forse il caso di intervenire per rilanciarlo. Le campagne di comunicazione, al riguardo, possono anche essere di una qualche utilità, ma quel che serve davvero sono interventi profondi nelle politiche professionali, su diversi fronti, a partire da quello dei contratti di lavoro.
A indurre molti giovani a scegliere altre facoltà rispetto a Farmacia non è infatti il timore di faticare a trovare occupazione. I dati al riguardo sono anzi decisamente positivi: a un anno dalla laurea, hanno già trovato occupazione più dell’84% dei neo-farmacisti, che diventano l’89,9% dopo tre anni e il 91 dopo cinque.
I problemi arrivano quando – dopo aver scoperto e vissuto la bellezza ma anche il peso e la durezza dei carichi di lavoro e delle responsabilità del lavoro in farmacia – si fanno i conti con lo stipendio. Che, in media, è di 1701 euro per un farmacista laureato da almeno cinque anni, 1580 per uno con tre anni di laurea e 1.478 per il fresco laureato con un anno di laurea. Salari ritenuti evidentemente troppo bassi, a fronte dell’impegno professionale richiesto, che ha peraltro un impatto fortissimo, purtroppo in prevalenza fortemente negativo, sul rapporto vita-lavoro. Ed essere costretti a pagare il pegno di una bassa qualità di vita è un prezzo che – alla lunga – molti non sono disponibili a pagare.
Questo spiega perché si acuisca la tendenza, una volta laureati, a cercare alternative occupazionali alla farmacia aperta al pubblico: i dati testimoniano un aumento dell’impiego nel pubblico (21,3% di chi ha conseguito il titolo nel 2022 contro il 18,5% di chi si è laureato nel 2018: in mezzo, però, e va doverosamente ricordato, c’è il picco del 23,6% dei laureati nel 2020). Cresce anche il numero di chi ha cercato e trovato occupazione nei settori dell’istruzione e della ricerca: il picco (12%) si registra anche in questo caso tra i laureati del 2020.
I dati Almalaurea offrono molti altri spunti, uno su tutti quello della inarrestabile avanzata della “marea rosa” all’interno della professione, sempre più femminile, nel rispetto peraltro della concordanza di genere (il sostantivo “farmacista” finisce notoriamente con la vocale a…) Come già ricordato, nel 2023 le laureate sono state 3.028 su un totale di 4030, che significa il 75,1%, percentuale che – a buttarla in politica – supera ampiamente la “maggioranza qualificata” per avvicinarsi alla “maggioranza bulgara”. Questo processo di così marcata affermazione di genere all’interno del corpus professionale non sembra però scalfire alcune incongruenze divenute con il tempo sempre meno comprensibili.
La prima è la quota bassissima (e il superlativo assoluto ancora non basta a rendere l’idea) di farmaciste negli organismi di rappresentanza professionale e sindacale della categoria: una notazione che torna di particolare attualità alla luce del rinnovo, in corso, degli organismi direttivi degli Ordini provinciali, anche se è del tutto irrealistico attendersi inversioni della tendenza a insediare nei ranghi di comando una maggioranza assoluta composta da farmacisti con la desinenza in “i”).
La seconda, più che un’incongruenza, è una vera e propria sperequazione, e riguarda il gender gap retributivo. Dicono tutto i numeri rilevati da Almalaurea: una farmacista, a un anno dal titolo, ha uno stipendio di 1464 euro contro i 1531 del collega maschio nelle stesse condizioni. A tre anni dalla laurea, il gap cresce: alla farmacista vanno in busta paga 1549 euro, al collega maschio 1685. E la divaricazione si allarga a cinque anni dal titolo: al farmacista vanno 1.827 di stipendio, mentre la farmacista deve accontentarsi di 1.667. Le differenze ce le dice l’aritmetica: 57 euro in meno al mese per la farmacista fresca di laurea, 136 in meno alla laureata da tre anni e 160 euro sonanti di differenza negativa, ogni mese, per la farmacista con cinque anni di laurea rispetto al suo collega maschio. Non si tratta qui di stabilire se le differenze siano tanto o poco, ma – semplicemente – di segnalarne l’esistenza e di chiedere a chi siede ai tavoli nei quali si discutono e si firmano i Ccnl perché debbano continuare a esistere.
L’auspicio è che l’aver riacceso un piccolo riflettore su un argomento assolutamente decisivo per l’avvenire della professione farmaceutica (molto di più di quanto non sia la stessa ‘farmacia dei servizi’ alla quale vengono dedicate tonnellate di attenzioni quotidiane) possa contribuire a fornire un’occasione, o almeno un pretesto, per tornare a discuterne e a occuparsene.
Sarebbe doveroso, prima ancora che utile.