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mercoledì 12 Febbraio 2025
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Censis, la sanità vira verso il privato: spesi nel 2023 44 mld, il 23% in più rispetto a 10 anni fa

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Roma, 9 dicembre – Il 58° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, presentato dal Censis lo scorso 6 dicembre, contiene come sempre un corposo capitolo dedicato al welfare e alla sanità, e proprio quest’ultima è tra i protagonisti dei “molti conti che non tornano nel sistema-Italia” e delle “molte equazioni che rimangono irrisolte” di cui riferisce la  ponderosa ma al solito illuminante radiografia dell’istituto di ricerca fondato da Giuseppe De Rita.

Il primo indicatore dello stato di sofferenza del nostro sistema sanitario è il dato delle diverse velocità di crescita della spesa sanitaria pro.capite privata e di quella pubblica: dal 2013 al 2023 la prima è cresciuta in termini reali del 23,0%, invece quella pubblica dell’11,3%. Nel periodo 2015-2022 le retribuzioni dei medici nel Ssn hanno subito un taglio in termini reali del 6,1%. Non sorprende, quindi, che l’87,2% degli italiani ritenga una priorità migliorare le retribuzioni e le condizioni di lavoro dei medici, considerati la risorsa più importante della sanità. Il 92,5% considera prioritario assumere nuovi medici e infermieri. L’83,6%, dopo la traumatica esperienza dell’emergenza Covid, che ha visto la sanità impreparata ad affrontare il picco di domanda di prestazioni sanitarie, si aspettava investimenti massicci e un più intenso impegno per potenziare il sistema sanitario.  Cose che – anche se il Censis non lo esplicita –  non sono invece accadute.

Negli ultimi 24 mesi il 44,5% degli italiani ha sperimentato, direttamente o indirettamente tramite i propri familiari, il sovraffollamento nelle corsie di ospedale o in altri servizi sanitari. Ogni 100 tentativi di prenotare prestazioni nel Servizio sanitario, il 34,9% degli italiani finisce poi nella sanità a pagamento, cioè in intramoenia o nel privato puro, con il pagamento per intero in capo ai cittadini. È la lunghezza delle liste di attesa che spinge a cercare soluzioni a pagamento. Lo switch nell’intramoenia o nel privato puro riguarda tanto il 37,1% delle persone con redditi medio-alti, quanto il 32,0% di quelle con redditi bassi. Lo sforzo economico per acquistare prestazioni sanitarie coinvolge anche i livelli di reddito inferiori, dunque, ed è alto il rischio di una sanità per censo, visto che i benestanti possono ricorrere alla sanità a pagamento con maggiore facilità. Così, l’84,2% degli italiani è convinto che i benestanti possano curarsi prima e meglio dei meno abbienti. Il 36,9% degli italiani in effetti ha dovuto tagliare altre spese per finanziare le proprie spese sanitarie, quota che sale al 50,4% tra le persone con redditi bassi e scende al 22,6% tra quelle con redditi alti. Le odisse sanitarie indotte dalle difficoltà di accesso al Servizio sanitario hanno implicazioni più generali sulla psicologia collettiva. Il 63,4% degli italiani dichiara di provare sfiducia nel Servizio sanitario, perché teme di non poter contare su soluzioni appropriate, mentre solo il 27,9% ha fiducia e si sente con le spalle coperte.

È diffusa la percezione che il livello di copertura del welfare pubblico si sia drasticamente ridotto nel tempo: un cambiamento epocale rispetto alle generazioni precedenti. Attualmente il giudizio prevalente è che il sistema di tutele pubbliche si limiti alle prestazioni essenziali, mentre per il resto si paga direttamente di tasca propria: lo pensa il 50,4% degli italiani. Il 49,4% è convinto che occorra ricorrere a strumenti di autotutela, come polizze assicurative e fondi integrativi. E il 61,9% pensa che sia più importante usare i risparmi per proteggersi dai rischi sociali come sanità, vecchiaia e inabilità, piuttosto che per ottenere alti rendimenti da investimenti finanziari. Da strumento di copertura dai grandi rischi sociali e fonte di sollievo per le famiglie, il welfare pubblico si tramuta in un costo che grava sui budget familiari. Per il 65,9% degli italiani le spese di welfare pesano molto o abbastanza sul bilancio della propria famiglia.

L’Italia presenta una percentuale di persone a rischio di povertà prima dei trasferimenti sociali pari al 27,2% e al 18,9% dopo di essi, mentre i dati della media Ue sono pari rispettivamente al 24,8% e al 16,2%. Secondo un’indagine dello stesso Censis il 9,8% degli italiani maggiorenni vive in famiglie in cui il reddito non è sufficiente a coprire le spese mensili. Inoltre, l’8,4% degli italiani si trova in una condizione di povertà alimentare, il 9,5% in povertà energetica e 2,7 milioni di maggiorenni in condizione di povertà oculistica. Sono alcuni esempi di forme specifiche di povertà che spiegano la crescente complessità dei fenomeni di disagio sociale, non solo di natura economica. Il 7,0% degli italiani riceve regolarmente soldi da membri della rete familiare (genitori, nonni e altri parenti) e un ulteriore 30,6% ne riceve saltuariamente.

Il Rapporto apre una finestra anche sulla settore previdenziale, rilevando che il 65,2% degli italiani ritiene che si debba riconoscere la libertà individuale di andare in pensione prima dell’età prefissata, sia pure subendo piccole penalità. Il 59,6% crede che sarebbe opportuno consentire ai pensionati di lavorare se vogliono farlo (il dato sale al 77,6% tra gli anziani). In più, l’84,7% degli italiani ritiene che nelle aziende occorra introdurre meccanismi per trasferire competenze dagli anziani ai giovani. Resta sullo sfondo il tema non aggirabile della futura sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale. L’81,5% degli italiani pensa che, con pochi giovani e tanti anziani, la previdenza inevitabilmente andrà incontro a grandi difficoltà. L’81,2% dei giovani è convinto che per garantirsi una vecchiaia serena sono fondamentali i risparmi e il 60,6% giudica essenziale lo sviluppo della previdenza complementare.

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