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lunedì 13 Ottobre 2025
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Medicina, Nobel a Brunkow, Ramsdell e Sakaguchi per le loro scoperte sui linfociti T

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Roma, 7 ottobre – Il premio Nobel per la Medicina o la Fisiologia 2025 è stato assegnato a Mary E. Brunkow, Fred Ramsdell e Shimon Sakaguchi  (nell’ordine nelle foto a lato), i primi due statunitensi e il terzo giapponese.  I tre scienziati sono sono stati premiati in particolare per per avere scoperto i meccanismi che regolano la tolleranza immunitaria periferica, ossia il processo che impedisce al sistema immunitario di danneggiare l’organismo, aprendo così la strada alla possibilità di comprendere e di contrastare le cosiddette malattie autoimmuni.
Il loro contributo maggiore è stato identificare le cellule T regolatrici, che agiscono come sentinelle tenendo a basa le cellule immunitarie, impedendo loro di aggredire l’organismo al quale appartengono.

“Le loro scoperte sono state decisive per comprendere il funzionamento del sistema immunitario” ha affermato il presidente del Comitato Nobel Olle Kämpe, aggiungendo che  i risultati dei loro studi permettono ora di comprendere “perché non tutti sviluppiamo gravi malattie autoimmuni”, 

“Le loro scoperte hanno gettato le basi per un nuovo campo di ricerca e stimolato lo sviluppo di nuovi trattamenti, ad esempio per il cancro e le malattie autoimmuni” recita la motivazione del premio, che è stato annunciato dal Karolinska Institutet di Stoccolma, in Svezia, dal segretario generale dell’Assemblea dei Nobel, Thomas Perlman. I tre scienziati si divideranno 11 milioni di corone svedesi, lo stesso ammontare degli ultimi 2 anni, pari a circa 1 milione di euro.

Le scoperte dei tre Nobel più in dettaglio

La storia della scoperta delle cellule T regolatrici che ha portato Brunkow, Ramsdell e Sakaguchi al Nobel per la medicina comincia nel 1995, quando proprio Sakaguchi, andando all’epoca controcorrente rispetto alla convinzione diffusa e sostenuta da molti ricercatori che la tolleranza immunologica si sviluppasse solo per l’eliminazione di cellule immunitarie potenzialmente dannose nel timo, attraverso un processo chiamato tolleranza centrale, fa la prima scoperta fondamentale. Lo scienziato giapponese riesce infatti a dimostrare che il sistema immunitario è più complesso, scoprendo che una classe di cellule precedentemente sconosciuta protegge l’organismo dalle malattie autoimmuni. Da qui in poi, cambiano prospettive e approcci degli studi sul potente sistema immunitario umano, che deve essere regolato, per impedirgli di attaccare i nostri stessi organi.

A scoprire come tenerlo sotto controllo sono proprio i tre scienziati appena insigniti del Nobel, rivoluzionando lo sguardo che la scienza aveva fino a quel momento sulle “sentinelle”  che ogni giorno proteggono il nostro organismo da migliaia di microbi diversi che cercano di invaderci, tutti con un aspetto diverso e molti  capaci di sviluppare somiglianze con le cellule umane come forma di mimetizzazione. Come fa il sistema immunitario a stabilire cosa attaccare e cosa difendere? Qui entra la scoperta fondamentale nel 2001 di Brunkow e Ramsdell, che riescono a individuare il motivo per cui uno specifico ceppo di topi fosse particolarmente vulnerabile alle malattie autoimmuni. Questi roditori presentavano una mutazione in un gene, battezzato Foxp3 dai due ricercatori, che  dimostrano anche che mutazioni nell’equivalente umano di questo gene causano una grave malattia autoimmune, la sindrome Ipex.

Due anni dopo la palla torna nelle mani di  Sakaguchi, che riesce a collegare la sua scoperta con quella di Brunkow e Ramsdell, dimostrando che il gene Foxp3 regola lo sviluppo delle cellule da lui identificate nel 1995. Queste cellule, oggi note come cellule T regolatrici, monitorano altre cellule immunitarie e garantiscono che il nostro sistema immune tolleri i nostri tessuti. Le scoperte dei vincitori hanno così dato il via al filone che ha esplorato i segreti della tolleranza periferica, stimolando lo sviluppo di trattamenti medici per il cancro e le malattie autoimmuni. Un campo che potrebbe anche portare a trapianti più efficaci e che ha portato allo sviluppo di molti trattamenti ora in fase di sperimentazione clinica.

I protagonisti di questa storia, le cellule T del sistema immunitario, sono i nostri protettori vitali, attori essenziali nella difesa dell’organismo. Nel nostro sistema ci sono cellule T dette helper che pattugliano costantemente l’organismo e, se scoprono un microbo invasore, allertano altre cellule immunitarie che scatenano una risposta immunitaria. Poi entrano in azione le cellule T killer, che eliminano le cellule infettate da un virus o da altri patogeni e possono anche attaccare le cellule tumorali. E ovviamente ci sono anche altre cellule immunitarie con funzioni diverse.

Tornando ai linfociti T, loro hanno sulla superficie proteine ​​speciali chiamate recettori dei linfociti T, paragonabili a dei sensori. Utilizzandoli, queste cellule possono scansionarne altre per scoprire se il corpo è sotto attacco. I recettori dei linfociti T sono speciali perché, come i pezzi di un puzzle, hanno forme diverse. Sono costituiti da molti geni combinati casualmente. In teoria, ciò significa che il corpo potrebbe produrre un numero enorme di diversi recettori di linfociti T, pari a 10 alla 15esima (nell’ordine dei milioni di miliardi). E questo garantisce che ce ne siano sempre alcuni in grado di rilevare un microbo invasore, inclusi nuovi virus come quello responsabile della pandemia di Covid 19.

Tuttavia, si creano inevitabilmente anche recettori che possono attaccare parti dei propri tessuti. Quindi, cosa fa sì che i linfociti T reagiscano solo ai microbi ostili? Negli anni ’80 i ricercatori avevano capito che, quando i linfociti T maturano nel timo, vengono sottoposti a un tipo di test che elimina quelli che riconoscono le proteine ​​endogene dell’organismo. E’ la tolleranza centrale. Alcuni studiosi sospettavano l’esistenza anche di linfociti T soppressori, che si riteneva si occupassero dei ‘colleghi’ sfuggiti al test nel timo. Ma le conclusioni dei primi esperimenti apparivano inverosimili.

La svolta fu impressa da Sakaguchi, allora in attività all’Aichi Cancer Center Research Institute di Nagoya, in Giappone, dove intuì che il sistema immunitario doveva avere una guardia di sicurezza. All’inizio degli anni ’80, quindi, isola le cellule T maturate in topi geneticamente identici e le inietta in quelli privi di timo. L’effetto è interessante: sembrano esserci cellule T in grado di proteggere i topi da malattie autoimmuni. Questi e altri dati convinsero Sakaguchi che il sistema immunitario dovesse avere linfociti T in grado di ‘calmare’ gli altri e tenerli sotto controllo. Era una nuova classe di cellule T, e ci vollero più di 10 anni perché riuscisse a presentarla al mondo. Lo scienziato, infatti, dovette trovare un modo per differenziare i vari tipi di linfociti T. Sul Journal of Immunology spiegò che le cellule T regolatrici sono caratterizzate non solo dal portare sulla loro superficie CD4, ma anche una proteina chiamata CD25.

Molti ricercatori però erano scettici, volevano più prove. Che arrivarono da Brunkow e Ramsdell.  Negli anni ’90, quando gli strumenti molecolari si affinano, si inizia a indagare sulle cause della malattia dei topi scurfy, ovvero topi maschi ‘malaticci’ scoperti negli anni ’40 del secolo scorso nel laboratorio statunitense di Oak Ridge nel Tennessee, dove nell’ambito del Progetto Manhattan si stavano studiando le conseguenze delle radiazioni, scoprendo che gli organi venivano attaccati da linfociti T che, a seguito di una mutazione, distruggevano i tessuti. Fra i ricercatori che si interessano alla mutazione scurfy ci sono appunto Brunkow e Ramsdell, alle dipendenze dell’azienda biotech Celltech Chiroscience, a Bothell (Washington), specializzata nello sviluppo di farmaci per malattie autoimmuni. Brunkow e Ramsdell prendono una decisione cruciale: dare la caccia al gene mutante. Negli anni ’90 è come cercare un ago in un gigantesco pagliaio, ma lo trovano. Dimostrano che la mutazione scurfy è da qualche parte al centro del cromosoma X, restringono l’area a 500mila nucleotidi, poi avviano l’enorme lavoro di mappatura e stringono il cerchio su 20 geni potenziali. Scatta la sfida di confrontarli in topi sani e topi scurfy. Brunkow e Ramsdell esaminano gene dopo gene e solo al 20esimo e ultimo fanno bingo: è il gene Foxp3. Studiandolo, iniziano a sospettare che una rara malattia autoimmune, Ipex, anch’essa legata al cromosoma X, potesse essere la variante umana della malattia dei topi scurfy e, cercando in un database, trovano l’equivalente umano di Foxp3. Con l’aiuto di pediatri di tutto il mondo, raccolgono campioni da ragazzi con Ipex e arriva la conferma: hanno mutazioni dannose nel gene Foxp3.

Nel 2001, i risultati pubblicati su Nature Genetics danno il via all’attività febbrile di diversi laboratori. Due anni dopo arriva il passo successivo di Sakaguchi, e a ruota di altri ricercatori: il gene Foxp3 controlla lo sviluppo delle cellule T regolatrici.

L’impatto di queste fondamentali scoperte è l’apertura a nuove strategie terapeutiche. Oggi diversi team stanno studiando modi per smantellare il muro di cellule T regolatrici e far sì che il sistema immunitario possa accedere ai tumori. Nelle malattie autoimmuni, invece, stanno cercando di promuovere la formazione di un maggior numero di linfociti T regolatori, somministrando in studi pilota interleuchina-2, che ne favorisce la proliferazione. E si sta valutando anche se questa possa essere usata per prevenire il rigetto di organi post trapianto.

Altra strategia per rallentare un sistema immunitario iperattivo è isolare i linfociti T regolatori da un paziente e moltiplicarli in laboratorio, per poi reintrodurli più numerosi. In alcuni casi, i ricercatori applicano sulla superficie dei linfociti T anticorpi che funzionano come un’etichetta che permette loro di inviare le guardie di sicurezza cellulari a un fegato o a un rene trapiantati e di proteggerli dagli attacchi del sistema immunitario. Ma questa è una storia ancora tutta da scrivere, al termine della quale – forse – ci sarà l’assegnazione di un altro Nobel.

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