Roma, 27 ottobre – Si annuncia come un matrimonio davvero molto prolifico, quello tra l’intelligenza artificiale e lo studio del patrimonio genetico umano, almeno in termini di produzione di farmaci non solo nuovi ma – come dire? – di ‘stirpe migliore’, sempre più personalizzati sulle specifiche esigenze dei paziente, ciascuno dei quali è costitutivamente un unicum biologico. E quel che l’Ai applicata alla genomica può fare è proprio questo: analizzare i miliardi di informazioni genetiche e dati biologici che sono custoditi all’interno di quell’immensa banca dati che è il corpo umano e aprire la strada per identificare terapie mirate.
Grazie alla possibilità di accedere a quantità inimmaginabili di informazioni da database genetici che raccolgono dati relativi a milioni di persone, oggi è infatti decisamente possibile identificare le mutazioni all’origine delle malattie e sviluppare farmaci a bersaglio molecolare. L’Ai – che vive nutrendosi di dati, “mettendoli in fila” e incrociandoli – consente appunto di accelerare esponenzialmente questa analisi, individuando ciò che può consentire di sviluppare nuovi trattamenti.
Se ne è parlato a Pesaro qualche giorno fa, in occasione del convegno La vita che cura la vita. Biotecnologie, intelligenza artificiale, poesia tenutosi nell’ambito del Festival KUM! ideato e diretto da Massimo Recalcati e promosso da Amgen, nel corso del quale studiosi di diversa estrazione – scienziati, bioeticisti ma anche letterati – si sono confrontati sulle nuove frontiere della diagnosi, della ricerca farmacologica e dello stesso concetto di cura. Che – contrariamente a quanto si potrebbe superficialmente pensare – l’innovazione tecnologica non disumanizzerà, perché (se ben impiegata) porta con sé tutto quel che serve per concorrere a sviluppare la dimensione umanistica del rapporto tra medico e paziente.
Un altro rapporto fecondo, questa volta sul terreno della diagnosi, è quello tra l’esperto umano e l’intelligenza artificiale, soprattutto in termini di riduzione dell’errore diagnostico, come ha spiegato a Pesaro Vito Trianni (nella foto), dirigente di ricerca all’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche, spiegando che essere umano e macchina ‘sbagliano’ in maniera diversa, e ciò porta a una riduzione dell’errore complessivo. “La macchina non ragiona” ha affermato Trianni “ma intercetta la correlazione statistica tra sintomi e risultati, e produce un output che rappresenta il livello probabilistico più alto. Il medico, invece, ragiona sviluppando un pensiero out of the box, avendo cognizione di qual è lo stato del paziente, della sua storia, del suo vissuto, e in questo modo riesce a cogliere dettagli che difficilmente sono trasferibili tramite un prompt all’intelligenza artificiale. Il nostro gruppo di ricerca” ha quindi concluso il ricercatore del Cnr “ha dimostrato che le diagnosi generate dall’Aia, una volta integrate con quelle dell’esperto umano, portano a diagnosi più accurate con minimizzazione dell’errore”.
Un elemento cruciale sul quale interviene l’Ai è quello del tempo, ovvero la risorsa più
preziosa all’interno della relazione di cura. Ed è proprio il tempo, secondo quanto affermato da Marcello Ienca (nella foto), professore di Etica dell’intelligenza artificiale e delle neuroscienze all’Università tecnica di Monaco, che l’Ai restituisce al medico, liberandolo da compiti meccanici e ripetitivi e consentendogli di utilizzarlo per e con il paziente.
“Automatizzando procedure burocratiche, triage ripetitivi o analisi di routine, gli algoritmi restituiscono a medici e infermieri ciò che è più prezioso, e cioè il tempo da dedicare all’ascolto, all’empatia e alla comprensione profonda dei pazienti” ha chiarito Ienca.
Ma non è ovviamente tutto: oltre a migliorare la qualità della cura, l’Ai può contribuire anche ad ampliarne l’orizzonte, rendendo accessibili in aree remote del mondo prestazioni diagnostiche di alto livello, grazie ad algoritmi di computer vision operativi su telefoni di vecchia generazione. I primi risultati sono già visibili: l’intelligenza artificiale ha portato a miglioramenti significativi della diagnostica in ambiti specifici come radiologia, dermatologia e diagnosi di tumori, dove la capacità di analizzare immagini ha condotto a strumenti che sono divenuti di utilizzo quotidiano.
Ma quel che premeva evidenziare a Pesaro era soprattutto l’impiego di una tecnologia avanzata come l’Ai a supporto del medico e non in sostituzione del medico, perché in medicina non si può prescindere – lo ha sottolineato lo scrittore Valerio Magrelli – dalla cornice umanistica, che è indispensabile e deve restare tale: “Il punto di incontro tra la dimensione della conoscenza scientifico-tecnologica e quella estetica è, forse, la presa dell’uomo sulla realtà” ha detto al riguardo Magrelli. “Poiein significa fare, costruire, creare. Poetare è quindi il paradigma di ogni forma di azione, ed è qui che c’è il contatto tra scienza e poesia”.


