Roma, 22 gennaio – I sintomi nelle prime fasi della malattia di Alzheimer potrebbero essere ridotti attraverso la regolazione dei livelli di dopamina. Il morbo che “ruba la memoria” potrebbe dunque essere contrastato con terapie già disponibili per il Parkinson. Questo lo scenario aperto da uno studio condotto da un’équipe di ricercatori dell’università Campus Bio-Medico (Ucbm) e della Fondazione Santa Lucia Irccs di Roma. Su modelli sperimentali, gli scienziati hanno confermato che “la stimolazione dopaminergica è efficace nel ridurre l’ipereccitabilità dell’ippocampo, condizione alla base dell’insorgenza di epilessia e che può contribuire al progressivo danno cognitivo nella malattia di Alzheimer”.
In Italia oltre 600mila persone convivono con questa patologia ancora senza cura, prima causa di demenza. Uno degli obiettivi della ricerca è quello di individuare la malattia con la massima tempestività, già a partire dai suoi primi segnali (la diagnosi, oggi, è esclusivamente legata ai sintomi riportati al neurologo dal paziente e misurati dal neuropsicologo). Un filone promettente, al riguardo, riguarda lo studio delle aree del cervello preposte alla produzione della dopamina, neurotrasmettitore il cui deficit è solitamente legato alla malattia di Parkinson, per la quale esistono già numerose terapie.
In questo ambito l’équipe di Marcello D’Amelio (nella foto), responsabile del Laboratorio di Neuroscienze molecolari delll’Irccs Santa Lucia e professore ordinario di Fisiologia umana dell’università Campus Bio-Medico, da alcuni anni si è focalizzata sull’Area tegmentale ventrale (Vta), un’area cerebrale legata alla produzione di dopamina e coinvolta in numerose funzioni in quanto ‘crocevia’ di diversi circuiti del cervello, che ne collegano parti differenti. Nel nuovo studio il gruppo di D’Amelio ha confermato che i livelli di dopamina nell’ippocampo, l’area cerebrale sede della memoria, svolgono un ruolo nella lunga fase pre-clinica dell’Alzheimer, caratterizzata da ipereccitabilità corticale e piccoli episodi epilettici spesso asintomatici e rilevabili con approfondimenti elettroencefalografici.
“Agire prima ancora che il paziente manifesti sintomi evidenti della malattia” spiega lo specialista “è molto complesso. Per riuscirci è necessario individuare con ragionevole certezza il paziente che effettivamente svilupperà la malattia e intervenire il prima possibile per preservare i neuroni. Infatti, non tutti i pazienti con le lesioni tipiche dell’Alzheimer sviluppano la malattia e un nostro precedente studio clinico sulla Vta ha permesso di identificare in maniera molto precoce i pazienti che svilupperanno la malattia di Alzheimer isolandoli da chi, pur presentando le lesioni da amiloide, è meno a rischio”.
“Con questo studio aggiungiamo un ulteriore tassello alla conoscenza delle fasi precliniche dell’Alzheimer” aggiunge D’Amelio. “Intervenendo sui meccanismi dopaminergici del cervello con farmaci ben noti per la loro efficacia nella malattia di Parkinson, siamo riusciti, in modelli sperimentali e non ancora sull’uomo” precisa il ricercatore “a preservare l’attività neuronale in aree colpite dalla malattia, riducendo l’ipereccitabilità ippocampale che può sfociare in attività epilettiche tipiche delle fasi iniziali della malattia di Alzheimer, e contribuire al peggioramento del declino cognitivo”.
Il meccanismo scatenato dalla carenza di dopamina, a sua volta legata a una precoce degenerazione della Vta – si legge in una nota – impedisce una corretta attivazione di interneuroni che hanno la funzione di controllare l’eccitabilità corticale. In definitiva, il nuovo studio conferma l’importanza che i circuiti dopaminergici rivestono nella malattia di Alzheimer, storicamente legata alla carenza di altri neurotrasmettitori tra cui l’acetilcolina. “Si tratta di un ambito di ricerca promettente” sottolineano i ricercatori “perché permetterebbe di trasferire le terapie oggi disponibili per la malattia di Parkinson nella malattia di Alzheimer”.
Lo studio, spiega una nota dell’Ucbm, conferma l’importanza che i circuiti dopaminergici rivestono nella malattia di Alzheimer, storicamente legata alla carenza di altri neurotrasmettitori tra cui l’acetilcolina. Si tratta di un ambito di ricerca promettente perché permetterebbe di trasferire le terapie oggi disponibili per la malattia di Parkinson nella malattia di Alzheimer.
“La diagnosi precoce e accurata della malattia di Alzheimer è fondamentale per selezionare i pazienti che devono imboccare specifici percorsi terapeutici anche farmacologici, incluse le terapie con anticorpi monoclonali contro la beta-amiloide” puntualizza D’Amelio. “È infatti evidente che quanto più precoce è l’inizio del trattamento, tanto maggiori sono le probabilità di rallentare o auspicabilmente arrestare il deterioramento cognitivo che conduce il paziente alla completa perdita dell’autonomia. Questo lavoro” conclude il docente del Campus Bio-Medico “va nella direzione di identificare specifiche alterazioni di eccitabilità corticale come biomarcatori di malattia che insieme ad altri, oggi disponibili, possano meglio caratterizzare lo stadio di sviluppo di malattia e aiutare il clinico a intraprendere il percorso terapeutico più adatto”.