Roma, 12 aprile – I farmaci biologici rappresentano il 40% della spesa farmaceutica europea, ma il 75% di questi con brevetto in scadenza entro il 2032 non ha concorrenti in cantiere e questo comporterà nei prossimi 10 anni per i sistemi sanitari dell’Ue mancati risparmi per almeno 15 miliardi di euro. In Italia, i vantaggi garantiti dai biosimilari, che tra il 2019 e il 2022 hanno generato risparmi che hanno toccato quasi 1,7 miliardi su base annua, potrebbero sparire a fronte di un crescente rischio di carenze.
Questo il preoccupante incipit di una nota diramata da Egualia, per accendere i riflettori sulle criticità legate alla governance dei farmaci biosimilari in Italia e in Europa, tema del convegno Biosimilari: un’opportunità a rischio? Le sfide per il futuro organizzato dalla sigla dei produttori di farmaci equivalenti, biosimilari e value added medicine e tenutosi ieri a Roma con la partecipazione di esponenti del mondo scientifico e rappresentanti delle istituzioni, della politica e della filiera, focalizzato sui dati Iqvia.
A illustrare le problematiche che limiteranno la futura disponibilità di farmaci biosimilari in Europa è stato Marco Travaglio (nella foto), esperto del Settore Biosimilari di Iqvia UK, secondo il quale le criticità legate ai costi di produzione e ai vincoli burocratici limiteranno la futura disponibilità dei prodotti biosimilari. A oggi, infatti, circa un terzo delle molecole a maggior spesa dei farmaci biologici non ha un farmaco biosimilare in corso di sviluppo, con la conseguenza che, al momento dell’imminente scadenza dei brevetti, ci potrebbe non essere la consueta apertura di mercato determinata dall’ingresso dei farmaci off patent.
Più critica la situazione dei prodotti a “bassa vendita”, ovvero quelli con un mercato Ue fino a 500 milioni di euro l’anno (76% dei biologici in scadenza entro il 2023), dove solo il 7% sarà oggetto di concorrenza nei prossimi 10 anni, con una mancata opportunità di minore spesa pari a circa 7 miliardi di euro. Stessa previsione per l’evoluzione del mercato dei farmaci orfani in cui solo un farmaco biologico orfano (eculizumab) ha finora attratto lo sviluppo di biosimilari, meno del 3% dell’intera coorte, secondo le analisi di Iqvia.
Affidato invece ai numeri condivisi da Francesca Poma, principal consulting di Iqvia Italia, il compito di illustrare le caratteristiche di un mercato nazionale apparentemente in “buona salute”.
L’Italia è il primo mercato europeo a volumi per i biosimilari e il terzo a valori, avendo raggiunto 450 milioni di euro nel 2023, pari al 54% del mercato totale dei biologici (836 milioni di euro).
Il contributo dei biosimilari in termini di risparmi per il Ssn è notevole. Per alcuni prodotti – come i farmaci per le patologie autoimmuni – il costo medio a trimestre per paziente in trattamento con farmaci biologici si è ridotto del 40%.
Ma un rovescio della medaglia c’è. I biosimilari hanno sostituito in gran parte dei casi i loro originatori senza portare a una crescita significativa dei pazienti in trattamento con le rispettive molecole, mentre è cresciuto l’accesso ai biologici innovativi, entrati sul mercato dopo il 2016, che hanno assorbito il 73% della crescita del numero di pazienti in terapia.
Ce n’è abbastanza da sollevare dubbi sulla sostenibilità delle attuali condizioni in cui operano le aziende di biosimilari, davanti al protrarsi di fenomeni di sotto trattamento e inappropriatezza, nonostante la bontà delle misure della legge 232/2016 che ha previsto lo strumento dell’accordo quadro per le gare d’appalto pubbliche per i biosimilari, coniugando la necessità di tutela della concorrenza per la sostenibilità del Ssn con la salvaguardia della decisione clinica affidata al medico a tutela del paziente.
La normativa vigente garantisce al clinico più opzioni terapeutiche: il medico dovrebbe poter scegliere liberamente tra i primi tre classificati nella graduatoria di aggiudicazione della gara secondo il criterio del minor prezzo o dell’offerta economicamente più vantaggiosa ed è vietata la sostituibilità automatica tra i farmaci biologici. Questo è il perimetro di sostenibilità economica entro il quale il medico prescrittore è chiamato a operare.
Nella pratica, le cose vanno diversamente: tutte le Regioni, infatti, fanno formalmente uso dell’accordo quadro ma analizzando i dati emerge come nella maggior parte dei casi a valle delle procedure di acquisto si ha una netta prevalenza di utilizzo del primo aggiudicatario, ovvero il prodotto a prezzo più basso, così che il secondo e terzo aggiudicatario restano inutilizzati nonostante, spesso, vi siano differenze di prezzo insignificanti.
A spiegare i pericoli di questa dinamica dal punto di vista delle aziende è stato Matteo Rinaldi, business unit director di Sandoz Italia e coordinatore del Gruppo biosimilari di Egualia: «La legge vigente ha contribuito a garantire all’Italia un adeguato tasso di penetrazione dei biosimilari ma vi sono delle storture nell’attuazione a livello territoriale che potrebbero amplificare il rischio di carenze” ha affermato Rinaldi. “Il focus solo sul primo aggiudicatario fa sì che nel momento in cui questo non sia in grado di soddisfare il fabbisogno, gli altri players del mercato non saranno in grado di sopperire rapidamente alla mancanza, provocando così le carenze di farmaci. Nel corso del tempo, questo modello indurrà sempre più aziende a disinvestire dalla produzione e dallo sviluppo di farmaci biosimilari la cui offerta sarà sempre più rarefatta».
Di qui il doppio appello da parte del comparto italiano dei biosimilari come antidoto al “vuoto biosimilare” presente e futuro.
«È necessario introdurre un meccanismo premiale per affrontare le criticità derivanti da una non adeguata applicazione della legge 232 del 2016″ spiega ancora Rinaldi “consentendo alle strutture sanitarie maggiore flessibilità nella scelta, al fine di permettere alle aziende di mantenere un adeguato livello di produzione e garantire la piena disponibilità di farmaci sul territorio».
Ad avviso di Paolo Gili, business unit director di Biogen Italia e vicecoordinatore del Gruppo biosimilari di Egualia, «I biosimilari hanno garantito lo sblocco di risorse che il nostro SSN ha potuto investire nell’acquisto di terapie innovative. Siamo il perno di un sistemo virtuoso che però necessita di continua attenzione così da garantire quell’equilibrio che, da un lato, tutela l’accesso alle terapie e, dall’altro, assicura che gli attori che generano concorrenza siano in grado di farlo anche in futuro. A livello nazionale la rimodulazione del payback per gli acquisti diretti rappresenterebbe un primo e efficace provvedimento per mitigare la crescente pressione economica che colpisce l’intero settore dei farmaci fuori brevetto e che, per le aziende di farmaci biosimilari, accanto alle criticità emerse dalle indagini di Iqvia , rischia di compromettere lo sviluppo di nuovi prodotti biosimilari».
I numeri del mercato italiano dei biosimilari nel 2023
Secondo i dati dell’ultimo Rapporto annuale del Centro Studi Egualia sul mercato di settore nel 2023, le 15 molecole biosimilari in commercio (adalimumab, bevacizumab, enoxaparina, epoetine, etanercept, filgrastim, follitropina alfa, infliximab, insulina glargine, insulina lispro, pegfilgrastim, rituximab, somatropina, teriparatide e trastuzumab biosimilari) hanno assorbito il 49,2% dei consumi nazionali (48% nel 2022) contro il 50,8% (52% nel 2022) detenuto dai corrispondenti originatori.
Complessivamente nell’arco del 2023 i prodotti biosimilari hanno registrato una crescita dei consumi del 4,7% rispetto ai dodici mesi precedenti. Specularmente si è registrata una contrazione del 9,9% delle vendite di tutti gli altri farmaci biologici off-patent.
L’analisi del consumo di biosimilare conferma cinque mercati in testa alla classifica. Prime nel consumo Marche con una quota di 70,8%, Valle d’Aosta e Piemonte, con una quota di biosimilari pari al 68,4% rispetto al mercato delle molecole di riferimento. Seguono la Liguria (67,4%), la Sicilia (63%) e la Toscana (60,7%). Fanalini di coda Lombardia (32,2%), Sardegna (34,3%) e Calabria (39,7%).