Roma, 8 marzo – Sono i migranti della salute, pronti a fare le valigie e partire per curarsi. In Italia sono circa 750.000 i ricoveri al di fuori della regione di residenza, circa 640 mila sono gli accompagnatori dei pazienti. Il fenomeno della mobilità sanitaria riguarda direttamente e indirettamente circa 1.400.000 connazionali, secondo la ricerca Migrare per curarsi, realizzata dal Censis su incarico dell’associazione CasAmica Onlus e presentata ieri a Roma nella sala Capitolare del Senato, della quale riferiscono alcuni lanci di Adn Kronos.
A spingere malati e loro familiari ad andare altrove per farsi curare è innanzitutto, la ricerca di qualità (54%),seguita da motivazioni pratico-logistiche (25%) e dalla necessità (21%), quest’ultima dettata dall’impossibilità di fruire, nella propria Regione, delle prestazioni necessarie o da liste d’attesa troppo lunghe. Nel 55% dei casi le le persone migrano dietro il consiglio del medico di famiglia.
Si parte soprattutto dal Sud alla volta degli ospedali del Centro-Nord, un flusso di 218 mila ricoveri l’anno. I poli di attrazioni della migrazione sanitaria sono le grandi città del centro-nord, dove si trovano i 10 ospedali che attraggono più del 25% dei flussi ‘migratori’: Careggi di Firenze, ospedali di Padova e Pisa, Rizzoli di Bologna, S.Raffaele e Istituto tumori di Milano, Gaslini di Genova e, infine, Bambino Gesù, Policlinico Gemelli e Umberto I di Roma.
Basti pensare che il Lazio cura ogni anno 18.000 minori, più del doppio di qualsiasi altra Regione. E si parte soprattutto per affrontare malattie croniche e gravi, come tumori o alcune patologie cardiache e pediatriche, che richiedono Centri ad alta specializzazione per la diagnosi e le terapie.
Fra pazienti e familiari, dunque, si spostano circa 1.400.000 italiani, un numero – precisa il Censis – che non corrisponde esattamente a quello delle persone, perché alcuni vengono ricoverati più di una volta nello stesso anno (circa l’8-9%), altri addirittura più di due volte (12-13%)
Partire alla ricerca di cure non è ovviamente facile né economico. I viaggi per raggiungere l’ospedale di riferimento sono lunghi e costosi, come costosa – evidenzia la ricerca – è la permanenza nei pressi dell’ospedale dove combattere la malattia, propria o dei propri cari.
In media si trascorrono lontani da casa una/due settimane, il 21% supera i 15 giorni. Un quinto delle persone ricoverate fuori regione accede alle cure in regime di day hospital. Ben 90 mila sono i nuclei familiari in serissima difficoltà.
Vitto e alloggio assorbono quasi il 50% delle spese sostenute. Il 58% lamenta l’onerosità dei costi sostenuti per la migrazione, il 43% difficoltà di ordine psicologico ed emozionale, senso di solitudine. Oltre il 30% segnala il peggioramento della sua situazione lavorativa.
Nel caso dei pazienti oncologici i costi diretti (visite mediche, farmaci, infermieri privati, viaggi) che le famiglie devono affrontare ammontano a circa 7.000 euro l’anno, mentre mediamente un malato adulto perde, da mancati guadagni, 10.000 euro l’anno, il suo familiare accompagnatore 6.000. Il 37% dei migranti preferirebbe ricoverarsi nel proprio territorio.
Tra chi viene dal Sud, la ricerca registra le situazioni più drammatiche: in molti casi malati e accompagnatori sono costretti a dormire su una panchina o in macchina accanto al luogo di cura non potendosi permettere il costo di un alloggio.
Il “privato sociale” riesce ad aiutare poco più del 10% dei migranti sanitari. Si moltiplicano dunque le associazioni nate per offrire loro assistenza e un alloggio vicino al luogo di cura, quasi sempre gratuito oppure proposto a tariffe irrisorie. Fra questa CasAmica Onlus, che ha accolto 70.000 migranti sanitari in 30 anni. E che chiede alle istituzioni il riconoscimento normativo giuridico delle case d’accoglienza per migranti e l’attivazione di un tavolo di lavoro
per promuovere sinergie tra privato sociale, ospedali e istituzioni appunto, per “consentire uno sviluppo dell’offerta di servizi di umanizzazione e iniziare un processo virtuoso di riduzione dei costi della degenza ospedaliera, favorendo la diagnostica e le terapie in
day hospital”.